Io non so

Non conosco nulla della storia di questa gente. Per una volta ho idea di utilizzare in modo appropriato il termine”gente”. Non so nulla di loro, non so nulla della loro storia e nulla della loro lotta. Mi sento un po’ a disagio a non sapere così niente. Per loro è così importante. Per me una vaga simpatia per un problema che ascolto distratta da altri luoghi lontani.

Simpatia per una colorata eterogeneità di età, ruoli, facce che diventa un flusso compatto e solido quando si tratta di manifestare per la propria vita, per la propria terra, per un buon senso che in situazioni come queste sembra così lontano che quasi manca il fiato per lo smarrimento.

La loro vita, che è anche la mia, lo so? La loro terra che è anche la mia, lo so? Ambiente, aria, acqua, diritti che sono i miei, e che io davo per scontati, mentre non lo sono.

E allora mi manca un po’ il fiato per lo smarrimento. E mi sento così inappropriata mentre loro sono cosi belli e autentici e generosi.

Uno di loro dice “Non so come mai, ma questa valle è diventata come una famiglia. E in una famiglia c’è di tutto, c’è quello bravo e c’è lo stronzo. Ma siamo una famiglia.”

E mi sembra di sentire proprio questo.

E sembrano anche meno stanchi di me questa sera, come se dare un senso più alto alle cose che si fanno stancasse di meno.

Bella gente.

Grazie per quello che fate e per come lo fate

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British in the jungle

Mia cara tu, proprio tu, che ami l’azzurro e il British, sono stata in un posto ed ho pensato molto a te.
Una buffa e insolita situazione.
Un signore vestito da cow boy, di quei tipi però che sono un miscuglio di inglese e kenyano, ha parlato di cacca di gallina e di paglia di grano biologica per circa un’ora ad un pubblico molto attento di attempati inglesi e di giardinieri kenyani. La sua azienda produce un compost biologico.
Sono stata invitata a partecipare da una signora inglese che vive in Kenya da anni e che, come tutti i tuoi amici inglesi ha una vera passione per tutto ciò che è giardino ed orto.
Siamo stati ospiti di un luogo fresco e ombroso nel quale un residence adiacente coltiva i vegetali per la sua clientela. Ora è la stagione delle piogge e io avevo due golfini, mentre i tuoi amici inglesi accartocciati nelle loro schiene di vecchietti vestivano di cotone a fiorellini e di tanto azzurro, quello che piace a te.
Ci hanno offerto tii end coffii end samchéick prima dell’incontro.
Anche il cow boy anglokenyano non è più di primo pelo, ma inizia l’incontro ricordando l’impegno della sua mamma ultraottantenne che si occupa ancora con entusiasmo di verde e che viaggia di scuola in scuola in Kenya a piantare alberi e a proporre cultura del verde. Sono strani i tuoi amici inglesi. Me la vedo accartocciata e rugosa, come i signori che stanno prendendo il tè ora con me, che va di scuola in scuola coi suoi vestiti a fiorellini (o da cow boy, chissà?) a insegnare a chi vive decisamente immerso alla natura qual’è il significato e l’importanza del verde. Lo so, lo so, la deforestazione…, l’utilizzo di carbonella superinquinante per cucinare, la difficoltà nella gestione dei rifiuti per cui attraversi delle zone nelle metropoli e non in cui ci sono distese enormi di rifiuti, discariche a cielo aperto, ma indubbiamente la gran parte della popolazione kenyana vive in un verde che è un verde vero
Ma la cosa che mi ha colpito di più è che nella lingua Swahili non esiste un corrispondente per “biologico”. Se cerchi di farti tradurre biologico non capiscono cosa vuoi dire. Probabilmente non hanno ancora chiaro cosa significhi che l’agricoltura “tradizionale” è quella invece più artificiale che ci sia.
Il cow boy spiegava che il terreno delle aziende che producono caffé è tè è terreno morto, che continua a produrre, come in tutte le coltivazioni intensive grazie a un dosaggio continuamente aumentato di fertilizzanti e pesticidi. E che il futuro è nel suo compost biologico.
In questi giorni sto leggendo con grandissima difficoltà Dead zone di Philip Lymbery e tutto, ma davvero tutto, mi sembra poter essere ricondotto a quello che sto leggendo.
Il cow boy (mannaggia, mi spiace continuare a chiamarlo così, ma non ricordo il nome… David? Daniel?…boh..) che era lì per raccontare la magnificenza e la super efficacia del compost che la sua azienda produce, ha raccontato con orgoglio che il suo compost è prodotto con paglia di grano biologico e cacca di gallina che vengono sottoposti a un trattamento per cui risulta pronto in 3 mesi, invece che nei classici 12 mesi. Per ragioni di business. Ovviamente.
Ha insistito a lungo nel dichiarare che la paglia è biologica. Che l’organismo certificatore è tedesco ed estremamente scrupoloso, perché il grano che viene coltivato in Kenya viene acquistato tutto ad un prezzo preventivamente convenuto, da un mulino (?) tedesco che vuole la maggior certezza di organicità.
E la cacca di gallina?
Qui gli argomenti mi si mescolano nel cervello perché mi si mescolano anche le esperienze.
Il cow boy (David/Daniel?) è stato forse convincente, ma io ho provato un fortissimo disagio.
La cacca di gallina proviene da un gigantesco allevamento di polli kenyano, che non è certificato biologico, ma è certificato halal.
Ha cercato di dimostrare che halal non è solo come vengono uccisi gli animali, ma anche il cibo che mangiano, che deve avere certe caratteristiche. Ha poi detto che il 75% del pollame prodotto in Kenya va in Arabia Saudita, come se anche ciò fosse una garanzia di qualità. Ha precisato che il pollame allevato parte da ibridi (non OGM ha sottolineato) che fanno crescere pulcini che in 12 settimane (sigh!) diventano polli di 2 chili (sono sempre ineluttabilmente pulcini, pulcini abnormi, ma in 12 settimane sono ancora pulcini…).
A qualche chilometro da Preggio, c’è un allevamento intensivo di questo genere di “ibridi”. In piena notte in genere finiscono le operazioni di carico dei “polli” da 2 kg e tir carichi di gabbie stipate serpeggiano per le colline umbre, diretti ai macelli. Lungo le strade delle colline umbre ci sono alberi che strisciano contro le gabbie e a volte le aprono. E a volte succede che io tornando (rarissimamente) a casa nottetempo trovi la strada punteggiata da queste palle rotonde di piume bianche. La maggior parte cadendo dal camion muoiono (ho il sospetto che non muoiano sul colpo…), ma se ne trovo qualcuno vivo, e mi accorgo che sono vivi solo perché respirano, non perché si muovano, li carico e li porto a casa. Sono delle creature puzzolentissime, non so se lo siano perché stanno per la maggior parte del tempo sui loro escrementi o se siano i mangimi che li rendono così devastanti. Comunque li carico e li porto a casa. Anzi in genere li lascio da Pasqui, perché lui ha un ambiente protetto nel quale non vengono a contatto con gli altri suoi polli.
La prima volta li ho portati a casa e ho avuto la malaugurata idea di lasciarli in compagnia di uno dei miei pulcini. Era un pulcino bianco, come loro, e aveva forse più della loro età, ma era grande un decimo. Era stato isolato perché sembrava che avesse una zampina rotta, invece aveva solo bisogno di ripigliarsi perché era il più debole della covata. Bene, quando li ho messi insieme, i due pulcinoni da 2 chili e il mio pulcino da 1 etto, il mio pulcino ha cominciato a randellarli come tamburi, peché fosse chiaro che il capo era lui. Quelle palle di piume rotonde non avevano la forza di reagire e di sollevarsi. Le loro ossa non sono adatte a reggere quella massa di peso, non crescono parimenti alla carne. Avevano la testa abbassata e cercavano di difendersi come potevano nascondendosi. In Dead zone e in Farmageddon, sempre di Philip Lymbery, si parla prevalentemente di allevamenti intensivi e dei danni, gravi, gravissimi, che gli allevamenti intensivi provocano in mille direzioni, non solo quello della salute (antibiotici in quantità sempre maggiore per poter inibire eventuali patogeni che colpiscono gli animali ammassati), ma soprattutto ambientali, sparizione della biodiversità, inquinamento del suolo per produrre mangimi, inquinamento dei fiumi che riversano nei mari quantità enormi di fertilizzanti che alimentano alghe che consumano talmente tanto ossigeno per cui ci sono delle aree, vaste e numerose, in mari e oceani in cui la vita non c’è, o il vivo muore. E quello che a me sembra quasi più importante è che i polli non sono affatto considerati esseri viventi senzienti. Vivono in un modo del tutto innaturale per loro, ma del tutto naturale per chi li alleva. Gli standard secondo cui lavorano gli allevamenti intensivi non riguardano minimamente le abitudini e le caratteristiche comportamentali e attitudinali degli animali (lo so che tu, proprio tu, lo sai).
Così i pulcinoni che raccolgo ancora vivi li lascio da Pasqui e cerchiamo di disintossicarli e lasciarli tranquilli in un ambiente in cui abbiano lo spazio per muoversi e per razzolare (i polli razzolano, sono onnivori e curiosi). Li lasciamo in pace finché non si riprendono e si fanno un pochino più forti. Fino a quando riescono a sollevarsi e camminare. Restano estremamente sproporzionati. Ma nel nostro piccolo, per quello che ci è possibile cerchiamo di offrire loro un briciolo di dignità. Qualcuno ce la fa, qualcuno invece che si è ferito nella caduta dal camion non ce la fa.
La forestale mi ha chiesto di avvisarli immediatamente quando dovessi incontrare ancora polli per strada. Io finora mi sono solo preoccupata di controllare e raccogliere quelli che trovo vivi.
Ecco. Tutto questo mistone nel mio testone di amante delle galline in una mattinata kenyana.
Non avevo voglia di polemizzare (di pollemizzare). Ero ospite di persone gentili.
Non ho parlato neppure dei libri di Lymbery con Daniel/David.
L’ho fatto con qualche gentile vecchietta inglese.
Hanno comperato il compost presentato. Lo hanno comperato per i loro giardini belli e rigogliosi (I loooove the jungle-garden dicevano entusiaste fra loro). Ed erano, e sono, indubitabilmente molto carine con i vestitini e i cappellini a fiori e tutte le loro rughe.
Io bevo il tè e mi rimescolo dentro.
E faccio davvero fatica a capire come tutti questi livelli fatti di gardeners e tartarughine inglesi e produttori di manure e amanti di galline potrebbero comunicare.
Bevo il tè e mi rimescolo dentro.

 

Una giornata con le ragazze

E’ bello quando capita. Ogni volta che capita. Quelle non molte volte che capita.
Francesca mi dice: Vieni a trovarmi? E io mi sento attratta e smarrita: gli ulivi da potare, in ritardo, piantati lì a metà, le piantine da trapiantare, le faraone che stanno per nascere, le dalie che non mi ricordo neanche bene dove le ho appoggiate… forse nel cassone del pick up, lo sciame appena catturato…
Si, grazie, le rispondo.
E così sono a Siena.
A fare la turista con una senese. Non sono senese. Si, ho capito, ma ci abiti, la conosci.
Immerse in un nugolo di giovani di diverse nazionalità, studenti dell’università per stranieri, in visita al museo del Monte dei Paschi con un’istrionica guida, perfetta nel suo ruolo, coinvolgente. Poco conciliabile con la realtà attuale della banca, col senso di confusione e disordine del quale so ben poco. Ma lui, il dottor Tasso indubbiamente è perfetto e preferibile ad altri punti di vista più torbidi.
I Salimbeni, commercianti, finanziatori, cittadini del mondo e di Siena, ghibellini. L’esproprio delle loro proprietà da parte della città diventata guelfa, l’esproprio dei pascoli, dei “paschi”, nel 1419. La fondazione della banca da parte della città nel 1472… E Firenze… E Firenze mai avrebbe potuto conquistare Siena senza l’intervento degli spagnoli di Carlo V… E Siena… E noi senesi siamo chiusi… E noi senesi siamo conservatori… E Siena… E Firenze… E abbiamo spostato lo stemma dei Medici in questo angoletto invisibile perché ci risultava insopportabile passargli sotto tutte le mattine andando al lavoro…
Conosco davvero poco Siena ma è una città ben strana. Siena è Siena e non esiste altro per i senesi, ma ci si batte, per davvero, a suon di mazzate, per antichi asti da tempo immemore fra contrade, fra senesi. A volte a colpi di carri di letame scaricati nella strade della contrada nemica… Che far arrivare un carro di letame inosservato per i vicoli di Siena a traffico limitato è già leggenda.
Comunque Siena con una senese (non sono senese, sì, ho capito ma…) è come un viaggio in un altro tempo. Ne hai la percezione quando ti capita di incontrarne uno, di senese. Ma visti da vicino e spiegati sono davvero strani. Fuori dal tempo. E poi in quale tempo? Nel Medioevo? E prima? Degli etruschi (Senia?) non trovo traccia, forse devo cercare meglio. Si sono inventati un’origine mitologica che viene da Remo, il fratello di Romolo, e dai suoi due figli, Ascanio e Senio, in fuga dallo zio fratricida che arrivano a Siena (che non c’è ancora) e dicono: carini questi tre colli, fondiamo Siena, che si chiamerebbe così proprio grazie a Senio… Ma gli etruschi dove sono nella retorica senese?
E poi questo Medioevo era davvero così affascinante durante il Medioevo?
Ma poi ti trovi davanti l’oro delle pale e Duccio di Buoninsegna che forse oggi o domani vedrò al museo del duomo, e Andrea Vanni e gli affreschi con quel blu abbagliante nella cripta sotto al duomo, e il cielo stellato della volta e il garbuglio di strade e stradine e gli scorci su Piazza del Campo. Un qualche fascino in effetti.
Anche se preferisco continuare a scrutare il Medioevo del Medioevo da questo Medioevo contemporaneo.

 

E adesso che si fa?

400 disegni per costruire un tetto.
Sembrava una missione impossibile.
A me sembrava una missione impossibile
(Chi non ne sapesse niente la trova qui)
E invece ce l’abbiamo fatta.
Io sono davvero molto contenta e spero altrettanto per tutti quelli che hanno contribuito.
Ora vale la pena riordinare le idee per capire esattamente cosa è successo e come. Perché potrebbe valere la pena continuare…
La scuola ha formulato un elenco di necessità che non sono certo affrontabili tutte insieme. Questo è il documento che la scuola aveva predisposto e sottoposto all’attenzione della comunità  (Kanani Project Proposal). Naturalmente nulla di quello che era stato programmato e scadenziato nel documento è stato realizzato.

Possiamo fare ancora qualcosa noi?

Il prossimo passo potrebbe essere la realizzazione delle toilette per le bambine come indicato nel progetto della scuola, ma sembra più sensato occuparsi prima dell’acqua potabile. Le scuole hanno diritto all’approvvigionamento con un camion cisterna a spese del governo, ma la scuola non ha taniche sufficienti e non è in generale attrezzata per ricevere l’acqua. I ragazzini ogni giorno portano da casa una bottiglia di acqua che alla sera riportano a casa vuota. Forse conviene davvero partire dall’acqua.
In loco ci sono due cisterne da 1.000 litri ciascuna, vuote e posizionate in un punto in cui in teoria dovrebbe venire convogliata l’acqua piovana dal tetto di uno degli edifici. L’acqua verrebbe potabilizzata con qualcosa che immagino sia cloro. Le canaline che dovrebbero dirigere l’acqua nelle cisterne sono ridicolmente instabili.

 rainharvesting to be fixed

Attualmente le taniche poggiano su un piedistallo rotondo. Dal tetto pencolano dei prolungamenti delle grondaie sorretti da paletti striminziti di ferro. La prolunga di destra è già crollata. L’idea sarebbe di costruire sul lato dell’edificio un marciapiede all’altezza di quello esistente su cui poggiare quelle taniche o altre o quelle più altre, collegate tra loro?, non collegate? nelle quali entri direttamente senza prolunghe instabili e posticce il tubo della grondaia. Le taniche vanno coperte da un prolungamento del tetto per mantenerle all’ombra.
Questo potrebbe essere il primo passo. Provvedere a rendere possibile l’approvvigionamento d’acqua.

E poi i bagni per le bambine.
La direttrice mi ha dato un’idea di cosa secondo lei sono dei bagni che consentono delle garanzie minime di igiene. Sono dei bagni estremamente essenziali, in un posto in cui l’acqua come dicevo non c’è…
Il mondo in quel mondo è un mondo diverso da quello che conosciamo.
La direttrice mi ha dato il preventivo (Toilet project Kanani School) che la scuola ha fatto per la costruzione di sei bagni.
Non so quanto effettivamente si possa contare sul reale contributo di lavoro dei genitori e della comunità di Kanani, come indicato nei progetti. Posso pensare di impegnarmi personalmente perché ciò avvenga, nel limite delle mie capacità di coinvolgimento. Posso provare a chiedere una riunione alla quale partecipino i genitori per chiedere ufficialmente il loro contributo, se non di denaro, almeno di lavoro. Nell’occasione della costruzione del tetto ero piuttosto stupita da ciò che stava accadendo e non ho fatto molto di più che rimanere col fiato in sospeso.
In alcuni punti nel preventivo si fa accenno ad eventuali pericoli corsi dalle ragazze che, in assenza di un numero sufficiente di bagni sono costrette ad andare nel bush e corrono dei rischi per la loro sicurezza personale. La cosa mi fa rabbrividire. Cercherò di capire se il rischio sia reale o solo paventato.

Forse bisognerebbe pensare di far diventare tutto questo ambaradam un qualcosa di “ufficiale”, una onlus… Non so. Ho ancora una gran dose di fifa.

Credo di avere ancora bisogno dell’aiuto di tutti e di più ancora.

 

 

 

 

Tetto fatto

Così il tetto è fatto.
E, ora che è fatto, è sembrato quasi facile.
Ma prima e durante non lo è stato affatto.
Non mi è sembrato facile raccogliere la cifra stimata. Non mi è sembrato facile non perdere il denaro lungo il tragitto verso il Kenya. Non mi è sembrato facile leggere il preventivo che mi ha dato la direttrice, non mi è sembrato facile capire come interpretarlo. Certo, ci sono stati il Babau e la Donna Ubiqua che mi hanno fatto scivolare su queste incomprensioni provvedendo a chiedere preventivi, confrontare, stimare, ordinare. Non avrei ancora cominciato se non fossero intervenuti loro. Dopo il loro intervento mi è sembrato quasi normale viaggiare sopra ad un tuk tuk per portare alla scuola il cemento, una nuvola di polvere di cemento ad ogni scossone lungo la strada dissestata e l’autista del tuk tuk che dopo ogni scarico pulisce i sedili con uno straccio umido prima che io mi risieda, cementandomi le chiappe sul sedile. A quel punto è stato già quasi facile.

Ma la cosa che mi è sembrata veramente difficile è stata officiare sola soletta con la direttrice e una manciata di insegnanti all’ombra del tetto nuovo (già perché adesso sopra l’aula non c’è più il cielo) ad una mini cerimonia fatta in mio onore nella quale una ragazzina, Elena (si scrive Elena, si pronuncia Elìna, mi dice la direttrice), mi ha recitato a nome dei suoi compagni l’apprezzamento per il lavoro che è stato fatto. Imbarazzo massimo. E’ andata così. Stavo confabulando col carpentiere dopo averlo pagato, mi aveva appena mostrato i suoi titoli di carpentiere, le sue lettere di raccomandazione di scuole e istituti governativi e già non sapevo bene come maneggiare la situazione, quando arriva la direttrice con qualche insegnante a dirmi che una ragazza vuole ringraziarmi per il lavoro fatto. Ero già sintonizzata sulla frequenza “Voglio sparire ZOT” grazie al carpentiere, dopo l’annuncio l’intensità si è amplificata: VOGLIOSPARIREZOT!!
E siccome l’imbarazzo quando si affaccia si installa e filtra tutto ciò che sta per accadere, la ragazzina non si trova, io spero silenziosamente di poter rimandare per non essere proprio sola in una situazione come quella, la direttrice non vuole e non può rimandare perché il giorno successivo non ci sarà (non importa, non importa, come se…), il cervello mi va in blocco (cosa devo fare? come devo agire?), intanto che si cerca la ragazzina mi trovo sola col carpentiere per un tempo incommensurabile durante il quale lui mi dice delle cose che cerco disperatamente di capire, delle quali cerco di capire il senso (Dio di benedirà se tu mi telefonerai… Prego? Si, Dio ti benedirà se tu mi penserai e mi manderai un messaggio dall’Italia… Sei sicuro?), quasi finalmente la ragazzina compare, ha una cicatrice raggrumata sopra l’occhio sinistro, inizia a recitare dei ringraziamenti guardando nel vuoto, capisco poco di quello che dice, penso: che sia cieca? mi dico: no, non mi pare che la scuola sia attrezzata per istruire ciechi, colgo qualcosa come “studierò con impegno, grazie grazie”, recita, è in piedi con le mani nelle mani, dondolante, lunga lunga, lo sguardo altrove, e allora pure mi emoziono e l’imbarazzo e l’emozione formano un impasto micidiale, farfuglio qualcosa anch’io… grazie a te, tu sei il nostro futuro, e ci caccio dentro anche questo rospone che mi porto appresso e che piazzo ora qui ora là con impaccio, tutte le volte che mi sembra che ce ne sia l’occasione (e, a volte, l’occasione non è proprio quella più adatta… ma tant’è), studia per imparare a scegliere, per formarti il senso critico… accidenti al rospo ciccione, cosa vuoi fare da grande? “La meteorologa” e vai con il cambiamento climatico e grazie e grazie e il futuro ecc…
Ad un tratto tutto finisce, la ragazzina va, la direttrice è sparita, gli insegnanti pure… Grazie grazie, ci vediamo a novembre.
Scivolo fuori, inforco la mia bicicletta. Accipicchia.
Sulla strada del ritorno ci sono un sacco di ragazzini e ragazzine con la divisa della scuola, è l’ora di pranzo. Mi chiedo se ci sia anche la ragazzina Elena, ma lancio sguardi veloci. Mi piacerebbe trovare il sistema di formulare in modo comprensibile ed efficace il rospone e trovare il sistema di rivolgermi, in un modo che non so, a tutti gli studenti, singolarmente.
Formulo motti (l’educazione è…) e lascio sbollire l’imbarazzo.

Comunque… il tetto è fatto.

Fiuuuu…