E adesso che si fa?

400 disegni per costruire un tetto.
Sembrava una missione impossibile.
A me sembrava una missione impossibile
(Chi non ne sapesse niente la trova qui)
E invece ce l’abbiamo fatta.
Io sono davvero molto contenta e spero altrettanto per tutti quelli che hanno contribuito.
Ora vale la pena riordinare le idee per capire esattamente cosa è successo e come. Perché potrebbe valere la pena continuare…
La scuola ha formulato un elenco di necessità che non sono certo affrontabili tutte insieme. Questo è il documento che la scuola aveva predisposto e sottoposto all’attenzione della comunità  (Kanani Project Proposal). Naturalmente nulla di quello che era stato programmato e scadenziato nel documento è stato realizzato.

Possiamo fare ancora qualcosa noi?

Il prossimo passo potrebbe essere la realizzazione delle toilette per le bambine come indicato nel progetto della scuola, ma sembra più sensato occuparsi prima dell’acqua potabile. Le scuole hanno diritto all’approvvigionamento con un camion cisterna a spese del governo, ma la scuola non ha taniche sufficienti e non è in generale attrezzata per ricevere l’acqua. I ragazzini ogni giorno portano da casa una bottiglia di acqua che alla sera riportano a casa vuota. Forse conviene davvero partire dall’acqua.
In loco ci sono due cisterne da 1.000 litri ciascuna, vuote e posizionate in un punto in cui in teoria dovrebbe venire convogliata l’acqua piovana dal tetto di uno degli edifici. L’acqua verrebbe potabilizzata con qualcosa che immagino sia cloro. Le canaline che dovrebbero dirigere l’acqua nelle cisterne sono ridicolmente instabili.

 rainharvesting to be fixed

Attualmente le taniche poggiano su un piedistallo rotondo. Dal tetto pencolano dei prolungamenti delle grondaie sorretti da paletti striminziti di ferro. La prolunga di destra è già crollata. L’idea sarebbe di costruire sul lato dell’edificio un marciapiede all’altezza di quello esistente su cui poggiare quelle taniche o altre o quelle più altre, collegate tra loro?, non collegate? nelle quali entri direttamente senza prolunghe instabili e posticce il tubo della grondaia. Le taniche vanno coperte da un prolungamento del tetto per mantenerle all’ombra.
Questo potrebbe essere il primo passo. Provvedere a rendere possibile l’approvvigionamento d’acqua.

E poi i bagni per le bambine.
La direttrice mi ha dato un’idea di cosa secondo lei sono dei bagni che consentono delle garanzie minime di igiene. Sono dei bagni estremamente essenziali, in un posto in cui l’acqua come dicevo non c’è…
Il mondo in quel mondo è un mondo diverso da quello che conosciamo.
La direttrice mi ha dato il preventivo (Toilet project Kanani School) che la scuola ha fatto per la costruzione di sei bagni.
Non so quanto effettivamente si possa contare sul reale contributo di lavoro dei genitori e della comunità di Kanani, come indicato nei progetti. Posso pensare di impegnarmi personalmente perché ciò avvenga, nel limite delle mie capacità di coinvolgimento. Posso provare a chiedere una riunione alla quale partecipino i genitori per chiedere ufficialmente il loro contributo, se non di denaro, almeno di lavoro. Nell’occasione della costruzione del tetto ero piuttosto stupita da ciò che stava accadendo e non ho fatto molto di più che rimanere col fiato in sospeso.
In alcuni punti nel preventivo si fa accenno ad eventuali pericoli corsi dalle ragazze che, in assenza di un numero sufficiente di bagni sono costrette ad andare nel bush e corrono dei rischi per la loro sicurezza personale. La cosa mi fa rabbrividire. Cercherò di capire se il rischio sia reale o solo paventato.

Forse bisognerebbe pensare di far diventare tutto questo ambaradam un qualcosa di “ufficiale”, una onlus… Non so. Ho ancora una gran dose di fifa.

Credo di avere ancora bisogno dell’aiuto di tutti e di più ancora.

 

 

 

 

Tetto fatto

Così il tetto è fatto.
E, ora che è fatto, è sembrato quasi facile.
Ma prima e durante non lo è stato affatto.
Non mi è sembrato facile raccogliere la cifra stimata. Non mi è sembrato facile non perdere il denaro lungo il tragitto verso il Kenya. Non mi è sembrato facile leggere il preventivo che mi ha dato la direttrice, non mi è sembrato facile capire come interpretarlo. Certo, ci sono stati il Babau e la Donna Ubiqua che mi hanno fatto scivolare su queste incomprensioni provvedendo a chiedere preventivi, confrontare, stimare, ordinare. Non avrei ancora cominciato se non fossero intervenuti loro. Dopo il loro intervento mi è sembrato quasi normale viaggiare sopra ad un tuk tuk per portare alla scuola il cemento, una nuvola di polvere di cemento ad ogni scossone lungo la strada dissestata e l’autista del tuk tuk che dopo ogni scarico pulisce i sedili con uno straccio umido prima che io mi risieda, cementandomi le chiappe sul sedile. A quel punto è stato già quasi facile.

Ma la cosa che mi è sembrata veramente difficile è stata officiare sola soletta con la direttrice e una manciata di insegnanti all’ombra del tetto nuovo (già perché adesso sopra l’aula non c’è più il cielo) ad una mini cerimonia fatta in mio onore nella quale una ragazzina, Elena (si scrive Elena, si pronuncia Elìna, mi dice la direttrice), mi ha recitato a nome dei suoi compagni l’apprezzamento per il lavoro che è stato fatto. Imbarazzo massimo. E’ andata così. Stavo confabulando col carpentiere dopo averlo pagato, mi aveva appena mostrato i suoi titoli di carpentiere, le sue lettere di raccomandazione di scuole e istituti governativi e già non sapevo bene come maneggiare la situazione, quando arriva la direttrice con qualche insegnante a dirmi che una ragazza vuole ringraziarmi per il lavoro fatto. Ero già sintonizzata sulla frequenza “Voglio sparire ZOT” grazie al carpentiere, dopo l’annuncio l’intensità si è amplificata: VOGLIOSPARIREZOT!!
E siccome l’imbarazzo quando si affaccia si installa e filtra tutto ciò che sta per accadere, la ragazzina non si trova, io spero silenziosamente di poter rimandare per non essere proprio sola in una situazione come quella, la direttrice non vuole e non può rimandare perché il giorno successivo non ci sarà (non importa, non importa, come se…), il cervello mi va in blocco (cosa devo fare? come devo agire?), intanto che si cerca la ragazzina mi trovo sola col carpentiere per un tempo incommensurabile durante il quale lui mi dice delle cose che cerco disperatamente di capire, delle quali cerco di capire il senso (Dio di benedirà se tu mi telefonerai… Prego? Si, Dio ti benedirà se tu mi penserai e mi manderai un messaggio dall’Italia… Sei sicuro?), quasi finalmente la ragazzina compare, ha una cicatrice raggrumata sopra l’occhio sinistro, inizia a recitare dei ringraziamenti guardando nel vuoto, capisco poco di quello che dice, penso: che sia cieca? mi dico: no, non mi pare che la scuola sia attrezzata per istruire ciechi, colgo qualcosa come “studierò con impegno, grazie grazie”, recita, è in piedi con le mani nelle mani, dondolante, lunga lunga, lo sguardo altrove, e allora pure mi emoziono e l’imbarazzo e l’emozione formano un impasto micidiale, farfuglio qualcosa anch’io… grazie a te, tu sei il nostro futuro, e ci caccio dentro anche questo rospone che mi porto appresso e che piazzo ora qui ora là con impaccio, tutte le volte che mi sembra che ce ne sia l’occasione (e, a volte, l’occasione non è proprio quella più adatta… ma tant’è), studia per imparare a scegliere, per formarti il senso critico… accidenti al rospo ciccione, cosa vuoi fare da grande? “La meteorologa” e vai con il cambiamento climatico e grazie e grazie e il futuro ecc…
Ad un tratto tutto finisce, la ragazzina va, la direttrice è sparita, gli insegnanti pure… Grazie grazie, ci vediamo a novembre.
Scivolo fuori, inforco la mia bicicletta. Accipicchia.
Sulla strada del ritorno ci sono un sacco di ragazzini e ragazzine con la divisa della scuola, è l’ora di pranzo. Mi chiedo se ci sia anche la ragazzina Elena, ma lancio sguardi veloci. Mi piacerebbe trovare il sistema di formulare in modo comprensibile ed efficace il rospone e trovare il sistema di rivolgermi, in un modo che non so, a tutti gli studenti, singolarmente.
Formulo motti (l’educazione è…) e lascio sbollire l’imbarazzo.

Comunque… il tetto è fatto.

Fiuuuu…

 

Ascolto

La sveglia è alle 5.
Il mondo è buio. Nessuna traccia dell’alba.
Cammino sperando di non incontrare nessun serpente sputatore nascosto e nessuna vipera cicciona e pigra.
E’ proprio buio.
Il tassista è in perfetto orario.
Mi garantisce che l’alba arriverà anche stamattina e in tempo per la mia passeggiata.
Sono dubbiosa, ma d’altra parte lui è esperto del luogo.
Guida pianissimo. Forse siamo partiti troppo presto.
Lungo la strada ragazzini con la divisa della scuola. Ma sono le 5:45, dove vanno a quest’ora? Si devono preparare per degli esami mi dice il tassista.
Arriviamo un poco in anticipo. La guida arriva poco dopo e tira giù dal letto una ragazza che mi vende il biglietto di ingresso.
L’Arabuko Sokoke Forest è una piccolissima parte dell’immensa foresta che un tempo copriva l’Africa Orientale (sto esagerando? Mi pare proprio di aver capito questo). Ne sono rimasti altri pezzettini in Mozambico, Tanzania e un altro paio in Kenya. Ma questa è la parte più consistente. E’ diventata parco per preservarla dal disboscamento selvaggio. In realtà credo si trattasse di utilizzo della foresta a scopo di sussistenza senza una valutazione della effettiva sostenibilità dello sfruttamento.
Alla popolazione locale privata della possibilità di accedere alle risorse della foresta sono state offerte soluzioni alternative: allevamento di farfalle, che sono numerose e molte delle quali sono endemiche; apicoltura; l’impiego come guardie del parco; lavoratori nelle coltivazioni a scopo scientifico e di conservazione dei semi degli alberi della foresta. E la costruzione di un recinto elettrificato che circonda tutta la foresta (che è grande davvero) per evitare che gli elefanti e i bufali distruggano le coltivazioni intorno.
Nella mappa della foresta la guida mi mostra un circolino minuscolo in basso a destra. Questa sarà la nostra passeggiata e durerà tre ore. La mappa è gigante, il circolino minuscolo. Mi rendo conto delle dimensioni dell’Arabuko Sokoke…
Intorno al villaggio interno al parco, abitato dalle famiglie delle guardie e dei lavoratori che si prendono cura della foresta, incontro per la prima volta l’animalino che è il simbolo del parco, il Golden-rumped elephant shrew, un animalino con la groppa dorata, che va di fretta, con un lungo naso a proboscide col quale cerca incessantemente qualcosa tra le foglie cadute e che se si spaventa fa dei salti come nei cartoni animati: boing!
Non sarà l’unico della giornata. Poco dopo ne compare un altro sulle tracce del primo. Rimanendo immobili l’animalino si avvicina, perlustra con la proboscide le tracce del precedente. Accenno un passo: boing!
Sulla nostra testa si affacciano tre rapaci notturni, perfettamente svegli, nonostante l’alba sia davvero arrivata. Ci guardano e poi girano la testa in quel modo strano dei gufi e poi ci guardano ancora e ondeggiano la testa come gli indiani (non me ne vogliano gli indiani…).
La foresta è sonora. E’ sonora in un modo che rende percepibile il senso dell’udito. Ascolto per ascoltare. La sensazione è piacevolissima. Mi accorgo di come sia gradevole l’ascolto, di come sia sorprendente e di come i sensi si attivino per interpretare. Mi rendo conto di come di solito non presto nessuna attenzione ai suoni che ho intorno. Mentre i suoni lì e adesso sono la sorgente della mia attenzione.
Gli alberi sono bellissimi, alcuni sono giganti e torti. Altri hanno i fusti ritti e colorati con mille sfumature di rosa e marrone. La guida mi elenca nomi scientifici e inglesi e swahili, che naturalmente non ricorderò, e mi racconta dell’uso che ne fa la popolazione locale. Alcuni usi sono piuttosto pittoreschi, la resina di un albero bellissimo viene bruciata per allontanare gli spiriti cattivi da casa, le radici di non ricordo quale veniva usata anche dagli egizi per procurare vigore. Mi mostra un pezzo di ebano, un pezzo di radice o un nodo, non so, e recita la parte che probabilmente recita tutte le volte che guida turisti lungo quel sentiero: cosa ti ricorda? La recita mi annoia, ma forse annoia anche lui, forse viviamo un fraintendimento reciproco: lui la recita per me e io vi assito per lui.
Ho voglia di prestare attenzione alla foresta. E’ una sensazione così piacevole e strana. Antilopine minuscole e altre poco più grandi, timide, all’erta, in fuga, lanciano delle grida di allarme che sembrano strida di uccelli. Scoiattoli indaffarati. Babbuini circospetti. Scimmie dalla coda lunghissima (endemiche?). E ancora golden-rumped elephant shrew a rivoltare foglie col nasone.
E un sacco di uccellini. Alcuni piccolissimi gialli sono degli indicatori della salute della foresta. Quando quegli uccellini spariscono, la foresta sta vivendo un disagio.
Ci muoviamo il più silenziosi possibile. La guida attiva un richiamo per un uccellino (questo sono sicura, endemico). Dopo poco lo stesso suono del richiamo è sulle nostre teste. Un uccellino minuscolo arancione, molto molto arrabbiato, ci gira intorno alla ricerca del richiamo del rivale.
Lo sente e non lo vede. Gira intorno, saltellando sui rami sopra di noi, insistente, preoccupato e molto arrabbiato.
Quando il richiamo cessa l’uccellino se ne va.
La passeggiata di tre ore ne dura cinque.
All’ingresso mi aspetta il tassista paziente.

 

 

 

Perplimuta

Queste storie che non fanno come dovrebbero fare le storie e invece che fluire verso un sicuro “happy ending”, si incagliano nella realtà e prendono forme distorte e diventano complesse e non ci sono buoni e cattivi e ci sono invece cose che non si capiscono e che non si sa bene come leggere… Queste storie che si fa così fatica a raccontare perché non sai da che parte prenderle, da che punto di vista leggerle… Queste storie così diverse… E tu chiedi che ti raccontino delle storie e ti immagini che abbiamo la forma e lo svolgimento delle storie alle quali sei abituata e ti accomodi, pronta ad ascoltarle, immaginando di poter prevedere cosa e come si racconterà… E invece sono storie così diverse. E le immagini che le illustrano non sono quelle che ti saresti aspettata, sono immagini violente, difficilissime anche solo da descrivere. E le storie sono così… sono diverse…
Sono una sciocca.
Ho chiesto alla direttrice della scuola di far scrivere delle storie alle classi, delle storie che parlassero di pace, di amicizia, di rispetto. Ho chiesto anche di illustrarle. Mi immaginavo di tornare a casa e magari stampare dei minilibri per poter continuare una raccolta fondi per la scuola di Kanani.
Mi immaginavo che “si sarebbe immaginato” e ne sarebbero sortite storie colorate, piene di fiducia per il futuro e piene di sorrisi per il presente.
Le storie sono invece agghiaccianti e i disegni che le illustrano altrettanto: morti, rapimenti, attentati, furti… Disegni di uccisioni, di parenti che piangono cari nelle bare…
Non so come ho potuto pensare ancora una volta di poter plasmare in un luogo diverso, in cui si vivono storie diverse, in cui ci sono prospettive diverse, in cui le esperienze quotidiane sono diverse, come ho potuto pensare di prevedere cosa ne sarebbe sortito.
Questo è quello che c’è qui e ora. E anche se lo guardo probabilmente non sono neppure capace di vederlo per quello che è.
Sono farcita di una cultura popolare che mi predispone ad un certo tipo di visione e faccio fatica (ma lo sapevo, avrei solo dovuto ricordarlo) a guardare con altri occhi. Chiedo di scrivere storie sull’amicizia e sul rispetto delle diversità e faccio così fatica a riconoscerla questa diversità…
Un “happy ending” c’è naturalmente: il tetto è stato costruito. Ma sono moltissime le cose che ancora non ci sono e il prossimo obiettivo saranno i bagni per le ragazze e magari un’altra aula.
E io ora per raccogliere denaro ho in mano storie terribili e disegni di violenza subita. Mi arrovello per capire.
Mi sento perplimuta.
E sciocca.

 

 

Il tetto: aggiornamenti

Si procede

Oggi, sabato, i lavori al tetto sono sospesi e sono iniziati i lavori per la costruzione del corridoio coperto davanti all’ingresso.

Qualche foto di aggiornamento

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