Ascolto

La sveglia è alle 5.
Il mondo è buio. Nessuna traccia dell’alba.
Cammino sperando di non incontrare nessun serpente sputatore nascosto e nessuna vipera cicciona e pigra.
E’ proprio buio.
Il tassista è in perfetto orario.
Mi garantisce che l’alba arriverà anche stamattina e in tempo per la mia passeggiata.
Sono dubbiosa, ma d’altra parte lui è esperto del luogo.
Guida pianissimo. Forse siamo partiti troppo presto.
Lungo la strada ragazzini con la divisa della scuola. Ma sono le 5:45, dove vanno a quest’ora? Si devono preparare per degli esami mi dice il tassista.
Arriviamo un poco in anticipo. La guida arriva poco dopo e tira giù dal letto una ragazza che mi vende il biglietto di ingresso.
L’Arabuko Sokoke Forest è una piccolissima parte dell’immensa foresta che un tempo copriva l’Africa Orientale (sto esagerando? Mi pare proprio di aver capito questo). Ne sono rimasti altri pezzettini in Mozambico, Tanzania e un altro paio in Kenya. Ma questa è la parte più consistente. E’ diventata parco per preservarla dal disboscamento selvaggio. In realtà credo si trattasse di utilizzo della foresta a scopo di sussistenza senza una valutazione della effettiva sostenibilità dello sfruttamento.
Alla popolazione locale privata della possibilità di accedere alle risorse della foresta sono state offerte soluzioni alternative: allevamento di farfalle, che sono numerose e molte delle quali sono endemiche; apicoltura; l’impiego come guardie del parco; lavoratori nelle coltivazioni a scopo scientifico e di conservazione dei semi degli alberi della foresta. E la costruzione di un recinto elettrificato che circonda tutta la foresta (che è grande davvero) per evitare che gli elefanti e i bufali distruggano le coltivazioni intorno.
Nella mappa della foresta la guida mi mostra un circolino minuscolo in basso a destra. Questa sarà la nostra passeggiata e durerà tre ore. La mappa è gigante, il circolino minuscolo. Mi rendo conto delle dimensioni dell’Arabuko Sokoke…
Intorno al villaggio interno al parco, abitato dalle famiglie delle guardie e dei lavoratori che si prendono cura della foresta, incontro per la prima volta l’animalino che è il simbolo del parco, il Golden-rumped elephant shrew, un animalino con la groppa dorata, che va di fretta, con un lungo naso a proboscide col quale cerca incessantemente qualcosa tra le foglie cadute e che se si spaventa fa dei salti come nei cartoni animati: boing!
Non sarà l’unico della giornata. Poco dopo ne compare un altro sulle tracce del primo. Rimanendo immobili l’animalino si avvicina, perlustra con la proboscide le tracce del precedente. Accenno un passo: boing!
Sulla nostra testa si affacciano tre rapaci notturni, perfettamente svegli, nonostante l’alba sia davvero arrivata. Ci guardano e poi girano la testa in quel modo strano dei gufi e poi ci guardano ancora e ondeggiano la testa come gli indiani (non me ne vogliano gli indiani…).
La foresta è sonora. E’ sonora in un modo che rende percepibile il senso dell’udito. Ascolto per ascoltare. La sensazione è piacevolissima. Mi accorgo di come sia gradevole l’ascolto, di come sia sorprendente e di come i sensi si attivino per interpretare. Mi rendo conto di come di solito non presto nessuna attenzione ai suoni che ho intorno. Mentre i suoni lì e adesso sono la sorgente della mia attenzione.
Gli alberi sono bellissimi, alcuni sono giganti e torti. Altri hanno i fusti ritti e colorati con mille sfumature di rosa e marrone. La guida mi elenca nomi scientifici e inglesi e swahili, che naturalmente non ricorderò, e mi racconta dell’uso che ne fa la popolazione locale. Alcuni usi sono piuttosto pittoreschi, la resina di un albero bellissimo viene bruciata per allontanare gli spiriti cattivi da casa, le radici di non ricordo quale veniva usata anche dagli egizi per procurare vigore. Mi mostra un pezzo di ebano, un pezzo di radice o un nodo, non so, e recita la parte che probabilmente recita tutte le volte che guida turisti lungo quel sentiero: cosa ti ricorda? La recita mi annoia, ma forse annoia anche lui, forse viviamo un fraintendimento reciproco: lui la recita per me e io vi assito per lui.
Ho voglia di prestare attenzione alla foresta. E’ una sensazione così piacevole e strana. Antilopine minuscole e altre poco più grandi, timide, all’erta, in fuga, lanciano delle grida di allarme che sembrano strida di uccelli. Scoiattoli indaffarati. Babbuini circospetti. Scimmie dalla coda lunghissima (endemiche?). E ancora golden-rumped elephant shrew a rivoltare foglie col nasone.
E un sacco di uccellini. Alcuni piccolissimi gialli sono degli indicatori della salute della foresta. Quando quegli uccellini spariscono, la foresta sta vivendo un disagio.
Ci muoviamo il più silenziosi possibile. La guida attiva un richiamo per un uccellino (questo sono sicura, endemico). Dopo poco lo stesso suono del richiamo è sulle nostre teste. Un uccellino minuscolo arancione, molto molto arrabbiato, ci gira intorno alla ricerca del richiamo del rivale.
Lo sente e non lo vede. Gira intorno, saltellando sui rami sopra di noi, insistente, preoccupato e molto arrabbiato.
Quando il richiamo cessa l’uccellino se ne va.
La passeggiata di tre ore ne dura cinque.
All’ingresso mi aspetta il tassista paziente.

 

 

 

Perplimuta

Queste storie che non fanno come dovrebbero fare le storie e invece che fluire verso un sicuro “happy ending”, si incagliano nella realtà e prendono forme distorte e diventano complesse e non ci sono buoni e cattivi e ci sono invece cose che non si capiscono e che non si sa bene come leggere… Queste storie che si fa così fatica a raccontare perché non sai da che parte prenderle, da che punto di vista leggerle… Queste storie così diverse… E tu chiedi che ti raccontino delle storie e ti immagini che abbiamo la forma e lo svolgimento delle storie alle quali sei abituata e ti accomodi, pronta ad ascoltarle, immaginando di poter prevedere cosa e come si racconterà… E invece sono storie così diverse. E le immagini che le illustrano non sono quelle che ti saresti aspettata, sono immagini violente, difficilissime anche solo da descrivere. E le storie sono così… sono diverse…
Sono una sciocca.
Ho chiesto alla direttrice della scuola di far scrivere delle storie alle classi, delle storie che parlassero di pace, di amicizia, di rispetto. Ho chiesto anche di illustrarle. Mi immaginavo di tornare a casa e magari stampare dei minilibri per poter continuare una raccolta fondi per la scuola di Kanani.
Mi immaginavo che “si sarebbe immaginato” e ne sarebbero sortite storie colorate, piene di fiducia per il futuro e piene di sorrisi per il presente.
Le storie sono invece agghiaccianti e i disegni che le illustrano altrettanto: morti, rapimenti, attentati, furti… Disegni di uccisioni, di parenti che piangono cari nelle bare…
Non so come ho potuto pensare ancora una volta di poter plasmare in un luogo diverso, in cui si vivono storie diverse, in cui ci sono prospettive diverse, in cui le esperienze quotidiane sono diverse, come ho potuto pensare di prevedere cosa ne sarebbe sortito.
Questo è quello che c’è qui e ora. E anche se lo guardo probabilmente non sono neppure capace di vederlo per quello che è.
Sono farcita di una cultura popolare che mi predispone ad un certo tipo di visione e faccio fatica (ma lo sapevo, avrei solo dovuto ricordarlo) a guardare con altri occhi. Chiedo di scrivere storie sull’amicizia e sul rispetto delle diversità e faccio così fatica a riconoscerla questa diversità…
Un “happy ending” c’è naturalmente: il tetto è stato costruito. Ma sono moltissime le cose che ancora non ci sono e il prossimo obiettivo saranno i bagni per le ragazze e magari un’altra aula.
E io ora per raccogliere denaro ho in mano storie terribili e disegni di violenza subita. Mi arrovello per capire.
Mi sento perplimuta.
E sciocca.

 

 

Il tetto: aggiornamenti

Si procede

Oggi, sabato, i lavori al tetto sono sospesi e sono iniziati i lavori per la costruzione del corridoio coperto davanti all’ingresso.

Qualche foto di aggiornamento

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Ma va là

Serpenti, vermi, ragni, mostri… Mi hanno terrorizzata con queste storie da incubo. Infezioni, amputazioni…
Ma va là…
Mi si è gonfiato il gomito, tutto qui. Mi fa un po’ male. Tutto qui.
“Ma tu non sai cosa può succedere…” “Non ti conviene sottovalutare….”
Il mio gomito è stato guardato, palpato, schiacciato, porca miseria mi fai male…
“Bisogna siringare il pus”
Non ci penso proprio…
“Eh ma come si è gonfiato!”
“Devi prendere gli antibiotici”
Vediamo…
Mi è anche stato detto: “Non fare la bambina”
Appena mi si dice “Non fare la bambina” mi sento immediatamente fragile e vulnerabile e vorrei protezione, non so perché.
Be’, alla fine sul tuk tuk con la Fata Turchina sono andata alla clinica del dottor Erulu (si chiama così?) dove un’assistente del dottore mi ha guardato il gomito e mi ha rassicurata che non si trattava né di ragni né di vermi né di altri mostri. O ho picchiato il gomito o mi ha punto un insetto. Fine.
Antibiotico (non lo prendo) e antistaminico.
E mi vuole rivedere lunedì.
Sulla strada del ritorno questo fiore, fantastico, così, gratis, sul ciglio della strada impolverata

Primo passo

Le 7:30 erano uno scherzo del Babau.

L’arrivo del camion e la necessità di controllare il carico no.

“Non provo neanche a chiamarli” dice il Babau dopo un’eternità che aspettiamo il camion

“Mi direbbero che sono per strada”

Ma alla fine cede

“Siamo per strada”

Appunto

Arriva il camion, ha seguito un percorso alternativo e meno frequentato. Il carico traballa e sporge in maniera inquietante.

Col Babau, la Fata Turchina e il costruttore (il fundi) controlliamo il carico.

Qualcosa non è come richiesto, il Babau lo segnala e lo fa cambiare.

Manca qualcosa. Il Babau lo va a comperare e lo consegna lui stesso.

Insomma… la costruzione del tetto è iniziata.

Il fundi (fundi vuol dire un po’ tutto: costruttore, riparatore, tecnico…) ha tinto le travi con l’impregnante (verde…) e ha cominciato a posizionarle.

Dice che sabato il posizionamento delle travi sarà terminato e cominceranno a fissare la copertura.

Non è fantastico?

Mi chiede altro materiale, cemento, altre travi.

Il Babau vuole verificare personalmente prima di consentirmi di procedere con l’acquisto

E così questa volta le cose stanno davvero prendendo forma. E’ una bella sensazione.

Grazie a chi ha partecipato al progetto, grazie a chi l’ha promosso e sostenuto.

E già che ci siamo, grazie anche al Babau…

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