In campagna, come si fa?

Non era così una volta, me lo ricordo bene.
D’accordo era solo dieci anni fa, ma dieci anni fa era diverso.
Non ho capito cosa è successo.
Forse avevano solo bisogno di prendere confidenza, si sono avvicinati piano piano. Hanno verificato giorno per giorno, anzi notte per notte quanto si potevano spingere vicini.
Forse i cani si sono abituati alla loro presenza, perché altrimenti non mi do spiegazioni.
Mi ricordo di una notte in cui Judalee abbaiava come un forsennato proprio sotto la finestra della camera. Mi sono affacciata e c’erano gli altri tre cani che stavano dormendo acciambellati e Judalee ultimo baluardo della notte che abbaiava a un cinghialone che, a due metri da lui, stava mangiando le prugne cadute sotto l’albero. Devo avergli detto stupita: Judalee, ma cosa fai? E lui prendendolo per un incitamento ha dato una specie di morso al cinghiale che, senza agitarsi troppo e anche un po’ disappuntato, è trotterellato via.
Ma anche Judalee è capitolato. Forse sono troppi o forse davvero ci si abitua alla presenza reciproca.

Fatto sta che la volpe me le sta portando via tutte. L’altro ieri un’anatra, l’ennesima e ieri un’oca, l’ennesima. Per non parlare delle faraone che, se non conto gli ultimi nati, si sono ridotte a un solo maschio di non so quante. E la volpe ormai si fa beffe anche della luce. Viene tranquilla di giorno e razzia quello che le pare. Una per volta, una per giorno.
Pasqui dice: Vedi, magari è qui a dieci metri da noi, nascosta, che aspetta e aspetta.
Così devo davvero, per forza, veramente, tenere tutti gli animali chiusi nei recinti.
A volte dopo qualche giorno di reclusione mi dico: Si sarà disabituata, la volpe, magari posso lasciarle libere di razzolare oggi. Soprattutto oche e anatre che hanno così bisogno di pascolare. E invece quando le richiudo nel recinto la sera ne conto una di meno.
Che nervi!!!

E poi c’è lui, anzi loro. Le capre le chiamano qui. I daini. Daini? mi chiede la forestale, a cui chiedo come fare per arginarli… Non ci sono daini a Preggio. Ci sono, ecco qui le foto.
Ah… forse sono i daini scappati dagli allevamenti…
Forse, ma sono millemilioni e mi mangiano tutto l’orto. Non ho fagioli o fagiolini, non ho più fragole, zucchine, meloni, peperoni (mangiano le piante dei peperoni, quelle dei pomodori e delle melanzane no…), insalata, erbette, mi rosicchiano le zucche in maturazione, devo coglierle acerbe per salvarne qualcuna.
Eh, insomma, basta!!

E allora chiedo furente a qualcuno di appostarsi col fucile (è illegale lo so) e acchiappare almeno un daino, come guidrigildo per tutti questi anni di fatiche inutili e raccolti frustrati.
E quando quel qualcuno cerca di concordare il momento, vengo presa da smarrimento e dico… ehm… no, aspettiamo ancora un attimo, provo ad alzare la recinzione.
E alzo la recinzione, e il daino non si scompone, per nulla, e la salta e mangia e fa la cacca, così giusto per ricordarmi che è passato anche di lì.

E allora vengo ripresa da furore: Voglio un daino con la polenta nel mio piattoooooo! Strillo.

E oscillo così tra rabbie incontenibili e incapacità di dare veramente l’ordine di reazione armata.

Ma una volta non era così…
Come si fa a tornare a una volta?

 

 

 

Nel mezzo del niente, nel buio della notte

Ti dico di no! No, no, no! E’ pericolosissimo! E’ folle! Tu non ti rendi conto…

Sono senza parole, lei insiste e io non trovo argomentazioni, perché la cosa mi sembra così evidente…

Lei insiste ancora, sono stupefatta, ma se prendessimo qualcosa per coprire, possiamo caricarla adesso.

Sono risoluta e spiazzata. Ma come fa a pensare una cosa del genere?

Primo pomeriggio in un campo di tabacco nel nulla a mille milioni di chilometri da casa.

La sorella l’ha chiamata, c’è uno sciame grosso. Dobbiamo arrivare entro le due perché poi cominceranno a lavorare e non hanno più tempo per mostrarmi dov’è lo sciame, posto che ci sia ancora.

Quando arriviamo il gruppo dei raccoglitori sta pranzando sotto un ponte, in prossimità delle macchine, sono a fine pranzo. Habib monta in motorino e mi fa un cenno, lo seguo col macchinone lungo stradine che attraversano i campi di tabacco. Non ho idea di dove stiamo andando, non ho idea se il macchinone sia adatto a percorrere queste strade, su, giù, storte, strette. Si ferma in un punto e indica in mezzo al campo. Abbarbicate al tronco di una pianta di tabacco un cilindro di api, uno sciamino. Erano moltissime stamattina, mi dice, se ne sono andate.

Mi vesto e metto la cassetta vicina alle api. Le invito con dei telaini già formati ad entrare nell’arnia, non sembrano né convinte né interessate. Mi sembra che quelle che ho scrollato nell’arnia escano tutte e piuttosto velocemente.

Mi trovo in mezzo all’usuale nuvola ronzante profumata. Me la assaporo, anche se penso che se ne stia andando via. Che profumo meraviglioso. Ma come fanno ad essere così piacevoli?

Col guanto ne prendo una manciatina dal tronco della pianta e le metto dentro. Aspetto.

Sembra funzioni, la nuvola ronzante si fa più intensa e bassa. Mostro a Messaouda le api che col sedere per aria sbattono le ali per diffondere il loro odore e richiamare le altre. Ci stanno riuscendo, lo sciame in volo si abbassa, si riduce, stanno entrando.

Le dico che devo tornare quando sarà buio per prenderle e, nonostante siamo in mezzo al nulla, ho il timore che possa passare qualcuno a rubare l’arnia. E’ allora che mi dice che dobbiamo caricarle subito, che lei si può coprire, che può coprire l’arnia. Le spiego che non è possibile, che bisogna aspettare che rientrino le esploratrici che stanno cercando casa in giro.

Insiste. Mi lascia senza parole. Non so spiegare…

Vuole che prendiamo un impermeabile, qualcosa, che le copriamo, e le carichiamo sul macchinone. Si coprirebbe anche lei.

Sono senza parole davvero. Ma ti rendi conto noi due nell’abitacolo con un nugolo di api incavolate.

Devo ripetere No! un sacco di volte. Troppe per il mio cervello che non si capacita delle ragioni di una proposta così assurda.

In effetti sono un po’ preoccupata. Le api sembrano davvero intenzionate ad entrare, ma non mi sento completamente sicura a lasciare una cassetta nel mezzo del niente. Chiunque potrebbe passare col buio e prenderla. Per pigrizia ho preso una cassetta nuova di zecca, mi rugherebbe ancora di più perderla.

Lasciamo le api e raggiungiamo Habib che con un gruppo di lavoratori stranieri, provenienti da tutti gli angoli del globo, deposita bracciate di foglie di tabacco sul carrello di un trattore, un carrello fatto apposta per impilare tabacco. In piedi sul carrello due tipi sgarruppati. Sono a disagio. Inizia a piovere. Tutti corrono a coprirsi. Chi lavora nel tabacco non si ferma per la pioggia, si copre e continua. Mi avvicino, concordo con Habib di incontrarci alle nove e mezza. Alcuni parlano in arabo tra di loro, ridacchiano, sono ancora più a disagio. Habib mi spiega che aveva cercato di tenere nascosta la presenza delle api per evitare che altri se ne mostrassero interessati, mentre io mi sono presentata col mio tutone sporco di propoli. Dice che si inventerà che il nostro accordo è per festeggiare insieme la pasqua araba domani. Il tutto è davvero poco credibile. Io non ricordo cosa ho detto esattamente avvicinandomi al trattore e in ogni caso raccontar balle mi è sempre non confortevole. Mi sembra sempre di essere alle prese con la prima bugia della mia vita, mi sento sempre poco credibile.

Torno a casa con Messaouda che, cocciuta, insiste nel dirmi che avremmo potuto portare a casa le api ora.

* * * * *

E così dopo cena riparto sola nel buio della notte (sono solo le 8, ma è buio e io sto andando nel chissàdove).

Davanti all’orto di Pasqui due daini maschi con un palco bellissimo e il mantello macchiato si muovono sincronizzati e corrono davanti alla macchina per infilarsi poi nel prato. Mi convinco che sia la coppia che viaggia sincronizzata immortalata dalle foto notturne. Questi:

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Lungo il tragitto verso il chissàdove mi dico che potrei raggiungere la cassetta nel mezzo del nulla da sola. Probabilmente sono in grado di ritrovare la strada e posso evitare di chiamare Habib. E poi mi immagino, io, proprio io, nel buio, sola in mezzo ad un campo di tabacco nel quale ogni pianta è uguale a se stessa, in preda al panico a dirmi che sono una stupida…

Così chiamo Habib. Mi aspetta alla rotonda vicino alla piscina. Cerco di spiegargli che non so proprio dove sia la piscina ma poi penso che chissàdove non è una metropoli e che probabilmente sono in grado di trovare una rotonda con un Habib che mi aspetta. Difatti. Lo trovo. Sale. Ricordo la strada che porta nei campi e le deviazioni per raggiungere il campo delle api, ma sono certa che senza di lui mi sarei convinta che mi avessero rubato la cassetta perché appena raggiunto il campo sono sicura sicurissima che il punto dove ho lasciato la cassetta sia questo. E lui dice no, è più avanti. E allora io dico: allora è questo! E lui ancora no, è più avanti. E’ qui dice. In un punto che a me non dice nulla.

La cassetta è lì, le api sono dentro. Gli chiedo di girare la macchina intanto che io le chiudo. Va tutto bene. Carico la cassetta. Salgo in macchina. Habib si scusa perché per fare manovra ha appoggiato il gelato sul cruscotto che si è sciolto. C’è una macchia di panna sciolta. Gli dico che la macchina è comunque sporca. Lui dice, lo so, mi ricordo quando l’abbiamo usata per la vendemmia. Mi rendo conto che non mi ricordavo per niente di aver lavorato con lui, e invece è a lui che non ricordo quando ho prestato i miei pantaloni da lavoro perché si era strappato i suoi… Eggià…

Apre il finestrino e prima che io possa rendermi conto butta fuori la carta del gelato. Me la meno per un bel po’ pensando che avrei dovuto dirgli macchecavolostaifacendo? e avrei dovuto recuperare la carta, oppure costringere lui a recuperarla, avrei dovuto fare o dire qualcosa, ma non dico e non faccio. Mi sento come non vorrei essere.

Lui intanto mi racconta in un italiano molto buono che sono 11 anni che lavora per la stessa azienda, della quale parla molto bene, come spesso succede.

Lo riaccompagno alla rotonda. Riprendo la mia strada.

Mille milioni di chilometri da casa.

Io e le api.

E una carta di gelato sulle strade del nulla nel buio della notte.

Roccoli Lorla Roccoli d’Artesso

Papà! Sono qui in un posto che mi piace immaginare tu abbia attraversato qualche anno fa.

Sei stato sul Legnone sicuramente e magari hai fatto questo sentiero.

Non conosco la geografia di questa area, non ho capito che strada abbiamo fatto per arrivare. Vedo che sotto c’è il lago e i cartelli indicano sentieri che portano sul Legnone.

Prima di arrivare qui ho percorso le stradine di Introzzo, quelle piane che lo attraversano e quelle che precipitano in picchiata. Ho visitato orti e frutteti su terrazzi di muri a secco, ho reso onore a chi li ha resi raggiungibili con scale strette di pietra che salgono verticali lungo la costa della montagna. Mi immagino le gambe muscolose e asciutte degli abitanti di un tempo.

Ho mangiato una mela acerba, una melina di montagna croccante e sugosa (ma si trovano solo in montagna queste meline?).  

Ma quant’acqua contengono queste montagne? Ovunque rivoli, torrenti, fontane, cannelle. Uno scrosciare sonoro. A volte per il paese giri l’angolo e ti investono gli spruzzi e il fresco, il freddo, di una cascata.

Ma adesso sono in prossimità di una pozza in un prato assolato e alle mie spalle c’è un maestoso cerchio di faggi che è l’evoluzione di un vecchio roccolo. 

Siamo ai Roccoli Lorla. Salendo ho incontrato dei larici fantastici alti e storti con delle bocche spalancate, un po’ da bosco di Biancaneve. Ti piacerebbero un mucchio.

Sto passeggiando con Orietta e Roberto. Nel tratto che segue ci sono delle trincee, la linea Cadorna, un tracciato che segue il lago, camminamenti strettissimi e caverne deposito buie peste scavate nella roccia. Ci ficco dentro il naso e non vedo nulla. Non capisco neanche quanto sono profonde, in quale direzione si spingono. Mi accoglie una zaffata di umido freddo e buio buio e scalini scivolosi. 

Ma sono certa che a te piacerebbero un mucchio e che faresti un milione di domande e che quando io cercassi di fermarti mi diresti: Basta Elena! e proseguiresti trascinato dalla tua irrefrenabile curiosità dentro a quell’umidore.

Ci sono gruppi di biciclisti temerari che si buttano a capofitto giù per i sentieri. Una Gopro fissata sul caschetto. Faccio ciao ciao con la mano verso la camera.

Un altro roccolo, d’Artesso, riutilizzato per la raccolta e l’inanellamento degli uccelli di passo. Faggi tirati e sagomati a cerchio, ad archi. Bellissimi, mostruosi, tirati come si potrebbe tirare una vite.

Sarà che questi paesaggi mi sono familiari, sarà che sono boschi così che mi hanno imprintato, sarà che non ci sono alberi più belli dei faggi nella mia immaginazione, sarà che è una bellissima giornata e riesco a pensare solo a cose belle, ma queste prealpi sono una vera meraviglia.

Non trovi?

Umanità nascosta

Stefano al ristorante dice che no, che mi sbaglio, che la cura lì resiste, che il parco lungo il Serio è curato, che le casette che vede lungo la strada scendendo da Rosciate verso Alzano sono carine, in ordine, coi giardini fioriti.

Non lo metto in dubbio, ma allora tutti quelli che ho incontrato sul treno ieri tra Brescia e Seriate dove sono?

Mi è sembrata un’umanità incerta, sgarruppata, confusa, o per lo meno io mi sono sentita confusa. Frotte di immigrati neri magri e in fuga dal controllore. Due uomini uno grosso che bestemmiava e uno piccolo piegato in due con un codino unto che gli penzolava sulle spalle sono saliti e si sono infilati nel bagno. Nel bagno? Mi sono detta che forse mi stavo sbagliando. Non avevano l’aria della coppia clandestina. Avevano l’aria di chi non mi capita mai di vedere. Sgarruppati, rattrappiti, imprecanti, dove sono di solito? Anche il mondo fuori dal finestrino lungo questa strana linea Brescia-Bergamo è un mondo che non mi capita mai di vedere. Campagna trascurata, ruderi, rottami, capannoni chiusi, erbacce alte, tante erbacce. E tutta questa gente che va in bagno. Davide dice che in bagno si infilano quelli che non hanno il biglietto. Io resto perplessa

Dico a me stessa che gli sgarruppati, quelli dall’aria dimessa, sconnessa, ci sono anche a Preggio. È vero, ma non vivono isolati. Sono parte della comunità e quando stanno male c’è qualcuno che prepara per loro i tortellini e se stanno molto male c’è chi li carica e li porta in ospedale e quando sono in ospedale c’è chi si prende cura di loro e gli lava i piedi incrostati.

E se qualcuno non si vede da un po’, lo si va a cercare, e se lo si trova in cattive condizioni si combatte per garantirgli una maggiore dignità e cura.

Ecco, parlo di cose che non conosco.

Forse anche quelli sbilenchi sul treno di ieri hanno qualcuno che si prende cura di loro. Forse non vivono in margini invisibili e silenziosi.

Forse

O altrimenti dove sono?