Storia di un tetto

Storia di un tetto

È un po’ che rimugino questa idea. È un po’ che cerco di confrontarmi per capire se è fattibile oppure no. Finché resta un’idea me la posso modificare, riprendere, rivedere quanto voglio. È un libero esercizio della mente.
Ma adesso il processo si è avviato. L’idea è stata proposta, così, nella fase della sua ultima rimuginatura ed è stata accettata così.
E io non ho più scampo. È finito il tempo del forse si, forse no. La palla sta rotolando per il pendio, non posso fare finta che sia ancora ferma.
Con ordine.

Ho la fortuna di andare in vacanza in Kenya sulla costa da qualche anno.  Il Kenya è un posto in cui la Natura è per Natura stupefacente. I fiori hanno i colori più vivi, gli alberi sono alti e imponenti. Ci sono gli animali delle fotografie, le giraffe, gli elefanti, i ghepardi, i leoni. E sono proprio lì, a due metri, a cinque. E li vedi respirare e vedi i loro muscoli muoversi sotto la pelle e li vedi che cercano il tuo odore nell’aria. Sono lì vivi e veri e potenti e belli.

E poi ci sono gli abitanti del Kenya che vivono una vita diversa da quella che vivo io. E siccome è così diversa a volte viene naturale fare delle comparazioni tra le opportunità e le abitudini e i valori. Che sono diversi. Diversi e basta. E capire che diverso non significa giusto o sbagliato, non è una cosa immediata. A volte sono rimasta (sono) sgomenta e perplessa di fronte a tanta diversità. Ma ho capito, credo di aver capito, che il luogo dal quale provengo ha esportato dei modelli di vita spesso inadatti alla società keniana. Credo di aver capito cosa significhi inquinare una società.

Spesso quando interagisco con i keniani mi chiedo: cosa sto dicendo? Che messaggio trasferisco? Posso fare male?

Probabilmente non ho tutto il potere che temo di avere, ma lo stesso me lo chiedo.

E così trasportata dalla mia curiosità per tutto quello che di vivo mi circonda, umano o semplicemente naturale vado a zonzo con la mia biciclettina. A dire la verità ho tradito la mia biciclettina per una bicicletta più confortevole e con i cambi che cambiano. La mia biciclettina ha dei cambi che cambiano la prima volta. Poi più. E allora la devo portare dal rasta coi capelloni e il cappellino e lui me la ripara e cosi ricomincia a cambiare. Una volta e poi più. Io mi ostino, anzi fino a poco tempo fa, mi sono ostinata, per fedeltà alla mia biciclettina e alla caparbietà e tenacia con la quale l’ho voluta (la voglio la voglio la voglio) ad usare lei, cambi o non cambi. Ma quest’ultima volta il piacere della confortevolezza, dei cambi che cambiano, dei sussulti che non fanno sussultare, del sellino meno duro, mi hanno portata ad usare un’altra bicicletta. Passo di fianco alla mia biciclettina, parcheggiata lì con cura e fingo di non vederla. Soffoco (con poca fatica) il sentimento di vile tradimento, inforco una bici altrui e me ne vado.

Sono lontanissima dal tetto e dalla Kanani Primary School.

Torno al tetto, pardon…

Durante le pedalate nei dintorni, dopo un po’ che ci passavo vicina, ho capito che quell’edificione grigio in mezzo al nulla era una scuola. I ragazzini te lo fanno capire. Ogni scuola ha una propria divisa, semplice, una gonnellona di tela di cotone leggera le ragazze, pantaloni o pantaloncini i ragazzi e una camicia. I colori identificano l’appartenenza ad una scuola o all’altra. I colori della Kanani Primary School sono due tonalità di verde.

A volte pedalando lungo la strada supero ragazzini o ragazzine, in divisa verde, che cominciano a correre dietro alla bicicletta. Corrono come matti. Per la verità la mia velocità non è mai elevata. Lungo la Kanani road lo è ancora meno perché la strada è piena di scogli affioranti e per evitarli procedo attenta e non certo veloce.

Ma loro corrono corrono e sembrano non stancarsi mai. Ad un certo punto sono io che mi stanco e torno indietro. E lascio questo popolo di piccoli corridori proseguire la loro strada verso casa.

Il tetto. Ecco.

La Kanani Primary School è una scuola di campagna. E’ una scalcinata, sgarruppata scuola di campagna, che assomiglia alle scuole che si vedono lungo le strade nei centri abitati, ma solo vagamente.

Ospita 450 bambini. Davvero difficile da credere. Dai 4 ai 18 anni.

Un groviglio di età diverse, di corsi diversi.

Gli insegnanti sono circa una dozzina, forse un paio di più. Otto sono stipendiati dal governo, gli altri pagati dai genitori, perché il governo non ne mette a disposizione di più. Non hanno uno spazio loro, un’ipotetica direzione, un’ipotetica aula insegnanti, ma occupano a rotazione una parte delle aule. Ci sono pile di libri, di cartellette, di scatoloni.
Il motto della scuola è: Knowledge is power.
È un bellissimo motto, che stride però con le condizioni nelle quali si presenta la scuola. Non si concilia il suo aspetto con l’idea di power. Sembra più un motto di speranza che una certezza.

La Kanani Primary School è composta da una fila parallela di edifici bassi, ognuno dei quali può contenere circa tre aule (sei, sette in tutto?), un altro edificio staccato che suppongo sia pure quello un’aula e un edificio nuovo di mattoni di corallo senza tetto. Ecco. Il tetto.

Poi ci sono naturalmente un vialetto d’ingresso definito da due file di scogli colorati di bianco. Un vialetto sconnesso. Lì tutto sembra sconnesso. Gli scogli (scogli, scogli, non sassi, perché lì una volta c’era il mare, scogli di scoglio e di corallo morto) affiorano dappertutto, non solo nel vialetto, che si capisce che è un vialetto solo grazie alle delimitazioni.

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Gli scogli affiorano nel cortile (mmm… cortile… ecco… spazio scoglioso) nel quale giocano ragazzini a piedi nudi, a volte rincorrendo con aria decisamente impegnata un pallone di stoffa.

Poi c’è un cisternone nero, che contiene l’acqua, suppongo (non ci sono lavandini e rubinetti nei villaggi in Kenya, ma cisternoni sopraelevati che vengono riempiti d’acqua trasportata da camion puzzolenti e rumorosi).

C’è anche un altro cisternone nero. A pezzi dietro la scuola. Funge da scivolo. I pezzi sono appoggiati su una sporgenza e i ragazzini ci si arrampicano e lo usano come scivolo collettivo.

Cosa non c’è alla Kanani Primary School.

Non c’è un tetto sull’ultima aula costruita. Un’aula che potrebbe essere utile in una scuola con 450 ragazzini dai 5 ai 18 anni e otto classi. Ragazzini che devono fare turni per poter fare lezione.

Non c’è un prato in cui poter giocare. Ci sono i soliti scogli che affiorano e che se ci inciampi per caso a piedi nudi fanno malissimo.

Non c’è ombra. Non ci sono gli alberoni imponenti che ci sono nelle altre scuole sotto ai quali si radunano i ragazzini a giocare o i genitori quando vanno a vedere le partite di calcio che si giocano sui prati. A volte sotto agli alberoni che sono davvero grandi si tengono addirittura delle riunioni di studenti e genitori e insegnanti. Sono degli alberi enormi. A Kanani non ci sono. Non c’è nemmeno un alberino striminzito. Però a Kanani ci sono le capre che meticolosamente mangiano tutto. Tutto. A volte gli insegnanti, tenaci e illusi, piantano delle piantine, sperando che sia la volta buona. La terra in Kenya è viva viva e piena di cose buone, si vede, perché le piante crescono velocissime, come se fossero superfertilizzate. E’ solo terra invece. Una bella terra generosa. Ma a Kanani ogni ricchezza che la terra cela non va a frutto perché le capre sono ovunque  sono voraci e sono implacabili.

A Kanani non c’è una recinzione che tenga fuori le capre e dentro le piante che, protette, potrebbero magari crescere. Le altre scuole non hanno solo la recinzione, ma hanno addirittura dei muri ai quali sono attaccati dei cancelli veri.

A Kanani no.

Gli insegnanti dicono che non c’è un’aula insegnanti. Si raggruppano in un’aula, sottraendola agli studenti. E quell’aula deve proprio essere indispensabile perché è piena di scartoffie, di libri, di scatoloni, di fogli, di registri. Pile e pile di carta ammucchiata ovunque.

Timidamente gli insegnanti segnalano che avrebbero bisogno di un’aula.

Ecco, gli insegnanti segnalano.

Penso e ripenso. Posso fare qualcosa? Credo proprio di no. Le esigenze della scuola sono davvero al di sopra delle mie possibilità. Ma il pensiero continua a ronzarmi. Penso, è solo un sogno. Non saprei cosa fare e come fare.

Quindi niente.
Ma non me ne libero.
Alla fine formulo questo abbozzo di idea: ma se ciascuno facesse quello che riesce? Se i bambini facessero qualcosa, gli insegnanti qualcos’altro, e io e noi un pochino, proporzionato alle nostre capacità. Insomma se tutti fossero coinvolti?
Bella idea, ma poi?
Va bene ci provo. Potremmo fare che… io compero dei colori e dei fogli… i ragazzini della scuola fanno ciascuno un disegno, per il quale vengono retribuiti per riconoscere il loro impegno (10 scellini?… 20?..).
Io porto i disegni in Italia e cerco di venderli a un euro l’uno. Non saranno le capacità artistiche dei ragazzini a tirare fuori dalle tasche un euro naturalmente… Ma magari l’idea di partecipare tutti, ma proprio tutti secondo le proprie disponibilità e capacità. Mah…
Sono in Italia, nel tepore dei miei pensieri e lì davvero giocare con la mente rende l’idea fattibile.
Ma una volta che torno in Kenya non ho scampo. O lo faccio o me lo cancello dalla testa.

E allora lo faccio. Incontro la direttrice che sta sommersa da carte e libri consumati e che trova fattibile la mia idea (immagino qualsiasi idea che porti un minimo di sostegno…). Mi propone di vedere gli insegnanti e di comunicare anche a loro l’idea. Li incontro, piena di fifa, di incertezza, di senso di inadeguatezza. Una dozzina fra uomini e donne, mezza età o giovanissimi, qualche pancione fra le donne. Imbarazzo massimo. Mio e loro.

Mi auguro che il mio inglese mi sostenga, ma sembra che sia tutto chiaro.

Chiedo: che cosa vi potrebbe servire se io magari putacaso forse ma chissà mi trovassi nelle condizioni di poter fare qualcosa per la vostra scuola?

Se, per esempio, i ragazzini facessero dei disegni e io magari li portassi in Italia e cercassi di venderli, vi potrebbero essere utili dei quattrini per la scuola?

E loro mi hanno detto: si, grazie.

Avremmo bisogno: di un tetto (eccolo finalmente questo tetto!) e poi di un campo sul quale far giocare i ragazzini e poi magari di una recinzione per tenere fuori le capre e far crescere magari qualche albero, per avere un po’ di ombra e poi magari di un’aula per i professori per liberare lo spazio per l’insegnamento.

Magari.

Questo mi hanno detto.

I ragazzini hanno fatto i disegni.

Io ho pagato simbolicamente i disegni ai ragazzini 20 centesimi di scellino kenyano ciascuno. Li ho pagati perché, di fatto, sono loro che stanno facendo in modo che quel benedetto tetto venga costruito. Perché da sola non riuscirei a fare nulla e per fare qualcosa ho bisogno dell’aiuto di tutti, ma proprio tutti. Dell’aiuto dei ragazzini, degli insegnanti e di chi legge o ascolta.

I disegni sono qui.

Per costruire un tetto ci vogliono circa 1000 euro.

Ho rifatto i conti e un euro a disegno non è sufficiente. Devo vendere i disegni a 3 euro l’uno, immaginando di venderne almeno 400 per raggiungere l’obiettivo.

Partire dal tetto mi sembra un buon modo per capire se ce la possiamo fare.

Ce la possiamo fare?