Oggi va così

Yesterday…
E oggi invece sembra che niente giri per il verso giusto.
Ieri non c’era problema per il cancello.
Oggi il messaggio è “nonsipuòvivereconquelcancello”
Ieri quella carne sembrava una grandissima ed ottima soluzione.
Oggi quella carne puzza.

E sono solo le 9:30 di mattina.

Yesterday
All my troubles seemed so far away

Vado alla ricerca di una nuova canzone
Non si sa mai…

Quel bradipo del mio avo

Così, quando all’improvviso ti cambia l’orizzonte.
Ma non un orizzonte qualunque.
L’orizzonte che hai sotto al naso.
Ti giri un attimo e poi ti rigiri perché ti è parso che ci sia qualcosa di strano. Come con la settimana enigmistica, confronti quello che vedi con quello che ti aspetti di vedere.
Ma che non ti aspetti di non vedere.
Non c’è più.
Centova, i ruderi di Centova che hanno fatto da soggetto a un milione di foto, ai quadri belli della Luisa, non ci sono più.
Non è di mia pertinenza quel luogo, non è mio, non lo posseggo, ma fa parte di me.
E allora devo riaggiustare il quotidiano. Devo riadattare il mio sguardo che tutte le volte che gira di lì, pensa di essersi sbagliato.
Com’è quella cosa? Quella cosa di cui ti parlano quando ti dicono che sei parte della squadra di un’azienda. Fa così poco parte di me che non mi ricordo neanche come si chiama. Capacità di adattamento, di reagire ai cambiamenti? Ha un nome più appropriato, ma proprio non mi viene.
Quella cosa lì in me, deriva da qualche antenato bradipo.
Mi adatto, mi adatto.
Ma con i miei tempi…

Assurdo

Non so se mi dimenticherò, ma chi lo sa? Magari dimenticherò.
E non voglio dimenticare questa cosa assurda.
Questa cosa che non avrebbe dovuto succedere perché non c’erano ragioni perché succedesse.
Perché dovrebbe esistere un tasto “rewind” perché questa cosa non doveva succedere.
Non ricordo quando è ripartito il contatto. Dopo millemila anni. Forse ho semplicemente ascoltato una telefonata in viva voce del Natalino. Uno “Zio Boia” che mi ha fatto pensare ad un linguaggio di amicizia consueta. Non ricordo come e perché ho avuto il numero. Era il settesettembreduemiladiciannove. Ho scritto per fare gli auguri alla sua mamma che compiva 90 anni.
Mi ha mandato tantissime foto della festa, tantissima gente che non conoscevo affatto. Ho cercato di capire chi fosse suo fratello. Lui era inconfondibile.
L’avevo incrociato tanti tantissimi anni fa in via Monte Rosa. L’ho fermato e ha avuto gli occhi strabuzzati per tutto il tempo. Credo si chiedesse chicacchiofossi.
Ma poi i novant’anni. Le tantissime foto.
Il Natalino con il suo vestito chiaro e la cravatta. Bellissimo.
Tutti gli altri sconosciuti.
E poi ogni tanto uno stato su uozzàpp. All’inizio circospetta, poi divertita.
Meno di un anno dopo, altre foto.
La sua mamma era morta all’improvviso. Di nuovo una festa per celebrarla, per ricordarla, per brindarla, per cantarla e per festeggiare col nostro vino.
“OTTIMO” mi ha scritto sotto a una foto del galletto.
“Ho visto Edo, adesso dobbiamo vederci noi”
Volentieri, ho risposto. Molto volentieri.
Una contrazione nello stomaco.
Ma no. Non doveva proprio succedere
Dieci giorni sono passati dall’ultima volta che ho sentito la sua voce. Dieci giorni in cui tutto è andato male. Tutto è andato male. Tutto è andato come non avrebbe dovuto.
Assurdo.
Assolutamente assurdo.
Il Natalino che si incrina in un altro pezzettino.
Mi manca un mucchio questa promessa insoluta.
Non voglio che sia successo.
E’ assurdo.

L’attesa

Non so quanto ci è voluto perché l’acqua perdesse la torbidezza e tutto lo sporco si depositasse sul fondo.
Ci è voluto un mucchio.
E’ stato necessario respirare a lungo.
E un sacco di tempo.
E’ stato necessario l’aiuto di qualcuno che mi aiutasse a separare l’acqua dal torbido. Fossi stata sempre sola non avrei mai beneficiato della trasparenza. Ringrazio chi c’è e chi non aveva più interesse né voglia, ma è stato importantissimo, importantissimo, anche se poi ha deciso che non aveva più nulla da spartire con me. Sto ancora ricucendo le ferite, ma sono grata.
E poi…
E poi basta un attimo e tutto si ringuazzabuglia.
Un attimo e la lucidità dov’è più?
Un attimo e tutto si rintorbida.
Mannaggia.

Quanto tempo dovrà passare prima che il torbido si ridepositi?
Mannaggia…
Allora respiro, va bene, comincio a respirare profondo.
Si ricomincia.

Novaradodiciottobreeancheunpo’ditrediciduemilaventi

Faccioilvino

Paura, paura, paura. Perché ho capito che ciò che mi caratterizza di più in assoluto è la paura. Non mi serve a niente chiedermi: ma cosa può mai succedere? Tutto può succedere, tutto ma tutto e io non lo posso immaginare. Quindi paura che serpeggia, avviluppa, stritola il progetto. Il progetto è un canovaccio. Lo studio del progetto è sempre stato rimandato. Non c’è stato tempo. Non c’è mai tempo.
Senza neanche lo studio, la paura ulula la sua potenza. IL progetto è un filo, un’idea, spezzettato, a macchie.
Non importa vado. E mi si acuiscono i sensi e mi viene la fobia dei “segni”. Machecazzo.
Sono sola. E vaffanculo.
A volte la paura si prende a schiaffoni anche con le parole. Almeno ci provo. E vaffanculo.
Parto. Penso che a chiunque incontrerò per strada potrei chiedere: Ehi, mica che mi accompagneresti a prendere un coso che da sola non ce la faccio?
Ma poi non ho il coraggio e ogni volta che incontro qualcuno e lo supero mi dico: be’ avrei potuto chiederlo a lui/lei…
Vado. Da sola. E vaffanculo.
Sposta la sbarra, apri il cancello, trova la chiave.
Il coso.
Ah be’, pesa anche meno di quello che mi sarei immaginata. Ma è enorme. Lo acchiappo come riesco, lo carico come riesco. Attenta al rubinetto. E’ sù. Evvai.
Prendo anche tutte le altre carabattole. Ne prendo tante, senza pensare esattamente a quelle che mi potrebbero effettivamente servire.
Non so niente. Non so cosa si usa per lavare cosa. Non so nemmeno se devo usare una pezzuola, se lo devo lavare a secchiate.
Porcavacca.
Non importa, carico e poi ci penso. Quando?
Chiudo cancello, lucchetto, sbarra.
Sono in ballo.
Butto uno sguardo agli alberi secchi, dovremmo tagliarli. Distraggo la paura. Che invece se la ride a crepapelle e mi acchiappa alla gola.
Non ricordo esattamente quando il tino mi cade per la prima volta (naturalmente dalla parte del rubinetto che si rincagna). Ma cade. Due volte. E ogni volta si rincagna di più. Ecco. I “segni”. Malasciaperdere. Madovecavolotistaificcando? Paurapaurapaura.
Abderrazak cerca di sistemarlo.
Poi inciampo, cado anch’io, lunga e distesa. Eh! che “segno”! Lasciaperdere!
Mi chiedo per quanto tempo ancora potrò permettermi di cadere senza spaccarmi a metà.
La scorsa settimana sono caduta svergolandomi la spalla. E ho pensato: ecco ci siamo. Invece il corpo mi si aggiusta ancora. Mah.
Poi dopo averlo lavato, non trovando sull’argomento nessun tutorial (ce ne sono su tutto, ma nessuno su come lavare e disinfettare un tino d’acciaio da 500 litri), e nessuna informazione certa su come cavolo usare la soda caustica (mavaffanculo), so che a un certo punto l’ho posizionato. Sul suo trespolo. Nel posto che mi sembra non proprio adatto, ma l’unico possibile.
Così abbiamo recuperato le cassette che Messaoida e Fatima stavano riempiendo del Sangiovese dei Danesi, quello là in fondo. Abderrazak dice che non è pronto, che può resistere. Ma da lunedì piove, per una settimana intera forse. E io ho paura. Paura di non trovare più neanche un grappolo sano dopo tutta quell’acqua.
Si fa e basta.
Installiamo la pigiadiraspatrice a mano in diverse posizioni prima di trovarne una che va abbastanza bene.
E io e Abderrazak ci alterniamo alla manovella.
No, non me la sento di cominciare cercando di fare un vino naturale. Uso attivante e lievito. E per fortuna sulle buste ci sono le istruzioni.

Ecco.
Adesso il tino è pieno e io tra un attimo vado a fare la prima follatura del giorno dopo.
Onore a me, e a tutti quelli che hanno prodotto questa bella uva, questo bel sangiovese, i cui fratelli di filare sono finiti in un vascone anonimo, con altra uva che non conoscevano, anche bianca e anche acqua. Abbandonati senza onore in quel vascone con lo strazio del mio cuore.
Che fatica. Che fatica continuare a cambiare direzione e a invocare la propria capacità di adattamento di essere più lesta di quello che è.
E questa paura.
E vaffanculo.