Paura, paura, paura. Perché ho capito che ciò che mi caratterizza di più in assoluto è la paura. Non mi serve a niente chiedermi: ma cosa può mai succedere? Tutto può succedere, tutto ma tutto e io non lo posso immaginare. Quindi paura che serpeggia, avviluppa, stritola il progetto. Il progetto è un canovaccio. Lo studio del progetto è sempre stato rimandato. Non c’è stato tempo. Non c’è mai tempo.
Senza neanche lo studio, la paura ulula la sua potenza. IL progetto è un filo, un’idea, spezzettato, a macchie.
Non importa vado. E mi si acuiscono i sensi e mi viene la fobia dei “segni”. Machecazzo.
Sono sola. E vaffanculo.
A volte la paura si prende a schiaffoni anche con le parole. Almeno ci provo. E vaffanculo.
Parto. Penso che a chiunque incontrerò per strada potrei chiedere: Ehi, mica che mi accompagneresti a prendere un coso che da sola non ce la faccio?
Ma poi non ho il coraggio e ogni volta che incontro qualcuno e lo supero mi dico: be’ avrei potuto chiederlo a lui/lei…
Vado. Da sola. E vaffanculo.
Sposta la sbarra, apri il cancello, trova la chiave.
Il coso.
Ah be’, pesa anche meno di quello che mi sarei immaginata. Ma è enorme. Lo acchiappo come riesco, lo carico come riesco. Attenta al rubinetto. E’ sù. Evvai.
Prendo anche tutte le altre carabattole. Ne prendo tante, senza pensare esattamente a quelle che mi potrebbero effettivamente servire.
Non so niente. Non so cosa si usa per lavare cosa. Non so nemmeno se devo usare una pezzuola, se lo devo lavare a secchiate.
Porcavacca.
Non importa, carico e poi ci penso. Quando?
Chiudo cancello, lucchetto, sbarra.
Sono in ballo.
Butto uno sguardo agli alberi secchi, dovremmo tagliarli. Distraggo la paura. Che invece se la ride a crepapelle e mi acchiappa alla gola.
Non ricordo esattamente quando il tino mi cade per la prima volta (naturalmente dalla parte del rubinetto che si rincagna). Ma cade. Due volte. E ogni volta si rincagna di più. Ecco. I “segni”. Malasciaperdere. Madovecavolotistaificcando? Paurapaurapaura.
Abderrazak cerca di sistemarlo.
Poi inciampo, cado anch’io, lunga e distesa. Eh! che “segno”! Lasciaperdere!
Mi chiedo per quanto tempo ancora potrò permettermi di cadere senza spaccarmi a metà.
La scorsa settimana sono caduta svergolandomi la spalla. E ho pensato: ecco ci siamo. Invece il corpo mi si aggiusta ancora. Mah.
Poi dopo averlo lavato, non trovando sull’argomento nessun tutorial (ce ne sono su tutto, ma nessuno su come lavare e disinfettare un tino d’acciaio da 500 litri), e nessuna informazione certa su come cavolo usare la soda caustica (mavaffanculo), so che a un certo punto l’ho posizionato. Sul suo trespolo. Nel posto che mi sembra non proprio adatto, ma l’unico possibile.
Così abbiamo recuperato le cassette che Messaoida e Fatima stavano riempiendo del Sangiovese dei Danesi, quello là in fondo. Abderrazak dice che non è pronto, che può resistere. Ma da lunedì piove, per una settimana intera forse. E io ho paura. Paura di non trovare più neanche un grappolo sano dopo tutta quell’acqua.
Si fa e basta.
Installiamo la pigiadiraspatrice a mano in diverse posizioni prima di trovarne una che va abbastanza bene.
E io e Abderrazak ci alterniamo alla manovella.
No, non me la sento di cominciare cercando di fare un vino naturale. Uso attivante e lievito. E per fortuna sulle buste ci sono le istruzioni.
Ecco.
Adesso il tino è pieno e io tra un attimo vado a fare la prima follatura del giorno dopo.
Onore a me, e a tutti quelli che hanno prodotto questa bella uva, questo bel sangiovese, i cui fratelli di filare sono finiti in un vascone anonimo, con altra uva che non conoscevano, anche bianca e anche acqua. Abbandonati senza onore in quel vascone con lo strazio del mio cuore.
Che fatica. Che fatica continuare a cambiare direzione e a invocare la propria capacità di adattamento di essere più lesta di quello che è.
E questa paura.
E vaffanculo.
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